Oro, Spezie e Tulipani

ARTICOLO: Value Investing o Growth Investing? Un’analisi di 20 anni di mercato

Last Updated on 27/07/2024 by bowman

Se guardiamo indietro all’andamento dei mercati internazionali, possiamo notare vari cicli di crescita e di contrazione nell’azionario mondiale, fortemente condizionato dall’azionario nord-americano in particolare.

Possiamo rivivere, dal punto di vista di risparmiatori (l’andamento di indici puri magari basati sul dollaro ha poco senso per le tasche del risparmiatore italiano) queste fasi utilizzando il grafico di 3 comuni fondi d’investimento, reperibili nelle principali banche, che hanno il vantaggio di uno storico fin dal 1997, cioè prima dello scoppio della bolla dei tecnologici:

A prescindere da performance, costi, strategie di gestione etc… notiamo che i trend dei fondi azionari internazionali sono assolutamente paragonabili, la ‘gestione attiva’ è essenzialmente uniforme ai movimenti del mercato.

1. La fine degli anni ’90: la forte crescita azionaria
Superate le tensioni relative al cosiddetto ‘Ciclone Asiatico’ nel corso dell’estate del 1997 (che causò il panico in paesi asiatici in un sud-est asiatico all’epoca ‘emergente’ ed in forte sviluppo, e che videro svalutare le loro valute e piombare queste aree in una profonda crisi finanziaria), il mercato attraversò un trend assolutamente positivo ed euforico, che favorì a dismisura in particolare le azioni con più prospettive di crescita, portando alla cosiddetta bolla del .com.

2. Marzo 2000 – Marzo 2003: il crollo dei mercati e la bolla
Un ciclo orribile per gli investitori azionari internazionali, fu lo ‘scoppio’ prima della bolla dei tecnologici e poi il panico internazionale dopo l’11 settembre 2001. Questo innescò un crollo delle quotazioni azionarie devastante poiché forte e di lungo corso. Iniziato grossomodo il 10 marzo del 2000 proseguì ininterrottamente fino al marzo 2003. Dopo 3 anni chi avesse investito nell’azionario internazionale (con uno dei fondi dell’esempio) durante il picco massimo avrebbe perso quasi il 60% dell’investimento, ma anche chi aveva investito tornando dalle ferie a settembre del 1997 si sarebbe trovato con meno dell’investimento di 5 anni e mezzo prima (in pratica l’intera ‘bolla’ tornò ai valori di fine estate 1997 su questo tipo d’investimenti).

3. Marzo 2003 – Giugno 2007: una crescita ‘value’
Dopo tre anni ‘orribili’ seguirono quattro anni di recupero (solo parziale per chi era entrato durante la bolla precedente) e di crescita delle quotazioni azionarie. Vediamo per i tipi d’investimento in esame una crescita superiore al 60% dai minimi di marzo 2003 ai massimi di giugno 2007.

4. Giugno 2007 – Marzo 2009: la grande crisi internazionale
Il crollo di Leman Brothers, descritto come la più grande crisi dei mercati finanziari dalla crisi del 1929, seguì circa 14 mesi di ribasso dei mercati e di svalutazione delle quotazioni azionarie, frenate da una politica dei tassi d’interesse in rialzo, dopo i 4 anni di crescita apparentemente sana ed equilibrata 2003/2007. Il tentativo di evitare una nuova bolla da parte delle autorità monetarie, come quella considerata devastante del 2000 non scongiurò la terribile crisi finanziaria, poi economica e recessiva a livello mondiale del 2008-2009. Dopo il fallimento di Leman Brothers i mercati furono caratterizzati da debolezza ed instabilità, anche se di fatto il minimo delle quotazioni dei mercati internazionali venne toccato a inizio marzo 2009, 6 anni dopo il minimo del 2003 e 9 anni dopo il crollo dei tecnologici. Un decennio assolutamente ‘nero’ per l’investitore azionario, che minò la fiducia di molti nei mercati ed iniziò a spingere le banche centrali verso una revisione completa delle loro politiche monetarie, divenute molto più espansive e disposte ad utilizzare anche strumenti innovativi ma capaci di condizionare potentemente i mercati quali i Quantiative Easing.

5. Marzo 2009 – Inizio 2011: il primo recupero
Le prime operazioni espansive di governi e banche centrali portarono ad una risoluzione del ‘credit crunch’ nei due anni in cui, contemporaneamente, si acutizzò invece la crisi economica e la recessione mondiale. Dal marzo 2009 a gennaio 2011 un ipotetico investitore negli strumenti di cui sopra avrebbe portato a casa un guadagno del +50%, semplicemente investendo ”quando nessun altro lo fa”.

6. Il 2011: primo anno di ‘stop’
Il 2011 fu un anno difficile, per il nostro paese in particolare, ma in generale sui mercati internazionali si assistette ad un prevedibile trasferimento del problema da banche e finanza ai governi. Sicuramente gli stimoli monetari messi sul piatto avevano messo uno stop alla crisi, ma in Europa (e non solo) come nelle migliori famiglie si iniziò a ‘litigà pe’ i ‘sòrdi’. Gli eventi della marginalizzazione dei paesi in difficoltà (amabilmente definiti ‘PIGS’) che attraversarono default parziali (Grecia) o radicali politiche di austerity, portarono i mercati mondiali ad essere cauti, e l’anno si rivelò, globalmente, non particolarmente redditizio per l’investitore, salvo chi acquistò a saldo asset svalutati (come il debito europeo).

7. 2012-2015: il secondo recupero
Sempre circa tre anni di trend costantemente positivo, quasi sovrapponibili al 2009-2011 o al 2003-2007 o anche al 1997-2000. La tripletta portò questa volta l’ipotetico investitore del natale 2011 ad un clamoroso +80% circa di crescita dell’investimento sul culmine del Quantitative Easing proclamato da Draghi: maggio 2015, in cui il tasso IRS dei mutui a 30 anni in Europa quasi si azzerò a forza di abbassare i tassi.

8. 2015-2016: secondo anno di ‘stop’
Di nuovo una tripletta di anni a forte trend positivo portarono ad un anno circa (dalla svalutazione dello Yuan nell’estate 2015 all’elezione di Trump nell’autunno 2016) di alterne fortune: svalutazioni a seguito di nuove paure finanziarie, parziali recuperi.

9. Il terzo recupero del 2016-2018:
L’ampia disponibilità di capitali messa in campo dalle banche centrali e la politica di agevolazioni fiscali della nuova presidenza americana avviarono nella seconda parte del 2016 una nuova euforica crescita ai mercati. Da metà 2016 a febbraio 2018 (20 mesi circa) l’ipotetico investitore avrebbe avuto una nuova crescita tra il 12 ed il 15%.

10. Il 2018: terzo anno di ‘stop’
Un lungo corso di espansività monetaria sembrava ormai aver condotto, in un decennio, l’economia (USA in particolare) ben lontana dalla recessione e dal rischio di depressione del 2008. La più prudente della banche centrali (grazie ad un’economia sottostante decisamente sana e dinamica) iniziò a valutare una politica di rialzo dei tassi, per arginare bolle, prevenire le distorsioni del mercato da politica monetaria e tenere sotto controllo l’inflazione. Questo funzionò nell’economia USA, ma restituì al resto del mondo un anno difficile: mettendo in crisi i paesi emergenti (il cui investitore trovava rendimenti sicuri nel dollaro in USA) ed economie più deboli come quella europea. A fine anno la debolezza internazionale minacciò seriamente di innescare nuove recessioni economiche. La politica dell’amministrazione americana fu quindi per maggiore accondiscendenza sulla politica monetaria, favorendo nuovamente i mercati.

11. Un 2019 da record:
Il 2019 fu un anno record, nei 14 mesi dall’inizio dell’anno alla metà di febbraio 2020 l’ipotetico investitore godette di mercati a briglia sciolta: banche centrali scatenate nello svalutare sempre di più in maniera competitiva ed abbassare i tassi d’interesse senza fine apparente, per arginare la minaccia di un debito pubblico sempre più alto e di un’inflazione che latitava. Una crescita superiore al +30% per l’ipotetico investitore azionario internazionale. Un mercato, ovviamente, sottoposto ad un rischio crollo elevatissimo, dato che si faceva sempre più sopravvalutato…

12. L’attuale crisi:
Una crisi sanitaria mondiale che ha costretto i governi ad una fortissima spesa pubblica e ad una sospensione delle attività produttive che ha innescato una nuova, violenta, recessione. Questo accompagnato da un’immissione di capitali pubblici a quanto pare senza limite. E’ inevitabile che quella ‘cercata stabilità’ dei mercati, inseguita negli anni 2003-2007 e probabilmente in anni maturi del ciclo economico come il 2016-2018, lascerà il posto ad una forte volatilità e, potenzialmente, a qualche nuovo ciclo ‘negativo’ che però, come negli anni 2000-2003 o 2008-2009 o 2011, 2016 e 2018, ha lasciato spazio per ‘inizi d’investimento’ particolarmente vantaggiosi.
Si tenga conto che l’investitore di 20 anni fa, nel 1997, oggi anche con fondi costosi ha visto raddoppiare-triplicare il capitale iniziale, difendendolo ampiamente dalla svalutazione inflattiva.

Passo ora a valutare due approcci, o strategie, d’investimento, l’approccio Growth e l’approccio Value.

I titoli cosiddetti Growth, o i portafogli e le asset allocation Growth, tendenzialmente vanno a selezionare investimenti con elevato potenziale di crescita nel valore degli asset. Alcuni settori, come il tecnologico e tutti i settori ad elevata trasformazione ed innovazione, sono usualmente favoriti. Le società d’investimento spingono molto sugli approcci Growth ‘tentando’ il consumatore son servizi allettanti (es. il ESG sarà l’investimento del futuro, le nuove auto elettriche, la ‘via della Seta cinese’, le nuove fonti d’energia etc…). Ovviamente l’approccio Growth si associa ad un’elevata componente di rischio: azzeccare l’investimento che poi realizzerà le aspettative sarà un volano per il nostro capitale, soprattutto se avremo anticipato gli altri nel farlo, d’altra parte al momento dell’investimento le garanzie sono poche e/o il rischio bolla è tanto. L’indice ‘principe’ della stategia Growth è, naturalmente, il Nasdaq, dove sono quotate le società USA (e non solo) a più alto tasso d’innovazione.

Esiste poi un approccio Value: i settori economici e merceologici, dopo la crescita (Growth) tendono a rappresentare business maturi, meno aleatori, ed a fornire maggiori certezze. Il tasso di crescita più basso spesso svaluta questi titoli rispetto al valore contabile delle aziende stesse, rispetto ai titoli Growth e spesso anche rispetto al loro flusso cedolare/rendimento. L’investimento ‘maturo’ non è tuttavia più prudente, né automaticamente meno redditizio dell’approccio Growth. Il rischio è ovviamente puntare su un settore che da maturo passa a marcescente: nessuno di noi avrebbe voluto essere l’ultimo acquirente di una carrozza laddove l’automobile era ormai alle porte, al contempo il rischio bolla è molto meno significativo. Tradizionalmente, nelle economie sviluppate, rappresentano asset value i settori assicurativo, sanitario, le infrastrutture ed i servizi pubblici, l’energetico. Settori a minor grado di innovazione ed a più lenta trasformazione (poi dipende dalle singole aziende, se come infrastruttura sto cercando d’introdurre un treno Hyperloop sarò fin troppo high tech come società!).

Andiamo ad osservare l’andamento di due ETF che ci mostrano l’approccio Growth e Value in Europa su un orizzonte temporale decentemente lungo:

Indubbiamente il 2010-2020 è stato il decennio del Growth.

Se utilizzassimo indici internazionali (e mettessimo in campo il noto grafico del Nasdaq-100) l’effetto sarebbe ancora più evidente, ho voluto utilizzare l’Europa per non farci al solito condizionare dai classici Amazon, Facebook e simili.

Tuttavia nel periodo tra la bolla del 2000 ed il crollo del 2008, in realtà il ‘value investing’ è stato, generalmente, un asset molto più solido.

Gli spunti su cui riflettere sono i seguenti:

– Quando si esce da una crisi radicale del sistema produttivo-finanziario, spesso questo deve innovare e spingere sulla produttività. E’ quello che hanno fatto le famose Facebook o Amazon o Apple, che 10 anni fa o non esistevano o possedevano quote molto più marginali dei mercati di riferimento, ed hanno cambiato il nostro stile di vita con i loro prodotti/servizi. Quindi dopo una crisi economica (non un tonfo dei mercati!) di questo tipo, molti investimenti coinvolgeranno il settore Growth.

– Quando si generano bolle (come alla fine degli anni ’90) la liquidità tende a seguire le ‘aspettative’, non va a cercare i ‘porti sicuri’, le bolle è probabile favoriscano di più il settore Growth e il loro scoppio può travolgerlo. Un’elevata quantità di liquidità (come le politiche dei tassi bassi) che può favorire simili bolle indirettamente favorisce un approccio Growth.

– Quando la crescita è ‘sana’, quando c’è una crescita progressiva di economia, inflazione, tassi d’interesse, e non siamo in una bolla, o si esce da una bolla, invece il principe è il settore Value, come negli anni 2000-2007, i settori economici maturi e con poca crescita marginale, ma che generano rendimenti ‘solidi’.

– Quando c’è paura, instabilità e shock esogeni, tendenzialmente i settori Value sono più favoriti. Pensiamo alla corsa al mattone (ed all’immobiliare!) dell’inizio del millennio, il boom di credito ed assicurazioni quando sale l’inflazione e devono salire anche i tassi (e salgono i prezzi delle materie prime del settore energetico, e salgono gli utili di banche ed assicurazioni) per seguire ed arginare la crescita dell’indice dei prezzi al consumo.

La domanda è: la pioggia di liquidità sarà senza fine e quindi passeremo ad un illimitato accrescimento dei settori Growth? Siamo all’alba di un nuovo decennio Growth come dopo la crisi del 2008? Oppure si dovrà uscire dalla politica dei tassi negativi, con le buone o con le cattive, e si passerà ad una fase ‘value’?

Ovviamente la risposta la avremo tra 10 anni, tuttavia si può stare attenti a diversificare tra strategie e non concentrare tutto su un unico approccio, magari senza accorgercene, guardando solo il grafico senza ‘capire’.

P.C. 09.05.2020

3 commenti su “ARTICOLO: Value Investing o Growth Investing? Un’analisi di 20 anni di mercato”

  1. Grazie per l'analisi, è possibile che questi dati confermino ancora una volta che per il piccolo risparmiatore, data la totale imprevedibilità dei mercati azionari e le bolle ricorrenti, la migliore modalità di ingresso sia quella di un PAC su di un etf azionario di lungo periodo, diciamo della durata almeno di 48-60 mesi, ma anche 72 potrebbero andare bene, per poi lasciar lavorare il capitale negli anni e nei decenni successivi?

    Correggetemi ancora se sbaglio, è possibile che questa analisi confermi anche che per il piccolo risparmiatore sarebbe sempre preferibile un etf che replica un mercato ampio, come lo Euro stoxx 600 per l'Europa oppure il classico SWDA per i mercati sviluppati, o eventualmente il FTSE all world di Vanguard, invece di inseguire gli etf che promettono una focalizzazione sul growth, sul Value, sul dividend o su altri fattori?

  2. Purtroppo di ETF con le focalizzazioni non ce ne sono molti e spesso replicando gli indici ognuno 'focalizza' a modo suo. I criteri per cui un'azione è Growth o Value non sono così fissi. Quando alcune società costruiscono l'indice poi replicato dall'ETF non utilizzano sempre gli stessi metodi. Un ETF MSCI World Growth o ACWI Growth credo non ci sia proprio. Il Lyxor EMU Value di cui sopra, ad esempio, non mi piace molto come ETF perché ha sempre osservato una scarsa diversificazione utilizzando solo 50 titoli value per tutta Europa, e si è beccato tutte le problematiche degli ultimi anni di energetici e simili. Detto ciò il concetto di ''meglio'' cerco di superarlo con il concetto di strategia e scelte, per me è importante che il mio interlocutore capisca che scelte si fanno e perché. Il PAC? Sì, ma già mi parli di anni d'entrata e decenni d'investimento: un orizzonte più lungo della quasi totalità dei portafogli che ho visto investire, ed il PAC diversifica il rischio del timing sbagliato (che però come abbiamo visto è devastante se te ne fai carico in quell'orizzonte temporale ventennale! Vai a mettere 300mila euro della vendita della casa di famiglia sull'azionario internazionale a fine 1999 o a inizio 2009… vedrai che differenza!). Lo stesso vale per il Value ed il Growth; ci tenevo a fare questa distinzione perché si tratta di STRATEGIE, non meglio o peggio. Un celebre fondo, il Morgan Stanley Global Brands appare come un prodigio di gestione attiva che sovraperforma l'indice MSCI World ed è coperto di allori… senz'altro, ma bisogna capire che è un indice dichiaratamente Growth, la sua qualità è semmai non fare peggio del ACWI Growth pur con i suoi costi grazie ad una strategia di diversificazione su alcuni asset azionari difensivi globali. L'importante è capire, poi la strategia è una scelta e ognuno si fa carico di pro e contro. Nei momenti di gain non è mai un problema, sia se hai il portafoglio secondo te 'migliore' sia se hai puntato tutto su Bitcoin o derivati del gas naturale. E' nei momenti di svalutazione che è importante capire per ragionare su come, perché e SE muoversi. Personalmente con un investimento (in buona parte progressivo) fortemente incrementato per caso (una liquidazione ricevuta e la scadenza di alcune obbligazioni) a marzo 2009 colsi un timing ottimo: casa mia, come dico sempre, sarebbe probabilmente più piccola (o il mutuo più oneroso) senza aver investito. Devo dire però che nel mio caso di 'piccolo risparmiatore' l'aver scelto (orizzonte marzo 2009 / giugno 2015) il Nasdaq100, re del Growth, anziché il Eurostoxx600 (che tra le altre cose avevo, ero un pò sbilanciato su Europa per il discorso del rischio valuta) mi avrebbe permesso di ridurre ancora di più il mio mutuo… nel senso che tutti facciamo il meglio possibile (salvo conflitti d'interesse), poi tanto a posteriori ci sarà sempre un giardino più verde (salvo l'aver casualmente azzeccato la scommessa del secolo).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto